Affresco e fresco secco
Nel’affresco i pigmenti vengono stesi sulla calce spenta ancora fresca stesa e resa liscia (rasata) su un muro.
La natura basica del substrato comporta una seria limitazione di pigmenti utilizzabili: essi devono infatti resistere alle condizioni di forte basicità della calce spenta.
Quando diciamo che la calce “si secca” in realtà cerchiamo di descrivere questa reazione chimica:
Ca(OH2) + CO2 = CaCO3 + H2O
In questa reazione viene assorbita anidride carbonica ed emessa, sotto forma di vapore, acqua (motivo per cui quando le pareti a calce asciugano gli ambienti si inumidiscono).
Quindi la calce spenta (che poi sarebbe idrossido di calcio) reagisce con l’anidride carbonica presente nell’aria e con il tempo si trasforma in carbonato di calcio, un materiale molto vicino al marmo.
In questo modo i pigmenti, intrappolati nella calce, vengono protetti dagli strati di carbonato di calcio e questo spiega l’enorme durata degli affreschi.
Più passa il tempo più la trasformazione di calce in carbonato protegge i pigmenti e l’affresco. La pittura diventa in un certo senso parte strutturale dell’intonaco a calce, del muro.
Tuttavia si tratta di una tecnica complessa e difficile da utilizzare perché la calce va stesa immediatamente prima della pittura e quindi si deve procedere passo dopo passo, stendendo la calce, rasandola e dipingendo, un pezzetto alla volta, facendo in fretta perché una volta asciugato, l’intonaco a calce non può essere più dipinto.
È una tecnica rapida e faticosa che non permette ripensamenti da parte dell’artista.
Fresco Secco
Nella tecnica del fresco secco, invece, i pigmenti vengono stesi sulla calce già secca e bagnata di nuovo.
Una tecnica molto più semplice in quanto basta inumidire la superficie già fatta e spargere i colori con i pennelli ma in questo modo la reazione di carbonatazione della calce non parte e non protegge i pigmenti che così risultano più esposti agli agenti atmosferici e si rovinano prima.
La tempera
Ma esistevano nel pass
ato altre tecniche di pittura, come la tempera. In questa tecnica i pigmenti si scioglievano in minuscole particelle di oli che poi venivano emulsionate in acqua.
Pertanto si parla di tempera ad acqua, un solvente semplice, di bassissimo costo, che non puzza, che evapora facilmente, che non ha effetti secondari negativi.
Per legare i pigmenti o, meglio, per stabilizzare le emulsioni di olio in acqua si usavano emulatori naturali, come per esempio il rosso d’uovo, ricco di lecitina, un potente emulatore.
Ma si usava anche il bianco d’uovo che, seccando, contribuiva con la sua rete tridimensionale proteica a dare struttura alla pittura. Altri leganti da tempera sono le colle, sostanze di origine vegetale (come gli amidi di cereali o le fecole di radici) o animale, come le gelatine.
L’acquerello
Curiosamente la tecnica all’acquerello, che è oggi la prima ad essere presentata agli studenti nelle prime classi elementari, non era conosciuta nell’antichità, almeno in occidente.
Fu una tecnica sviluppata in oriente, in Giappone ed in Cina, che utilizzava la gomma arabica come stabilizzante dei pigmenti in acqua.
L’acquerello o acquarello si diffuse in Europa soltanto attorno al 1400, curiosamente anche il secolo nel quale nacque la pittura ad olio, sconosciuta agli antichi.
L’olio
Nella tecnica ad olio i pigmenti vengono sciolti in un solvente oleoso di origine perlopiù vegetale.
Tuttavia in questo modo si otterrebbero soltanto strati di lunghissima essiccazione, inadatti ad opere su tela. Pertanto questa tecnica si diffuse soltanto con la scoperta di alcuni oli particolari, come quello di lino, che avevano una struttura chimica tale che con il tempo essi formano una struttura solida, una specie di pellicola trasparente. Per questo sono chiamati oli “essiccativi”.
Di fatto si tratta di li ricchi di doppi legami carbonio carbonio che all’aria reagiscono con l’ossigeno formando strutture plastiche ma solide resistenti all’aria utili a proteggere i pigmenti.
Il fatto che nella pittura ad olio lo strato polimerizza a contatto con l’aria, permette di spargere con il pennello vari strati successivi uno sull’altro ottenendo un effetto di velatura impossibile da ottenere con le altre tecniche nelle quali, se si ripassa il colore, il solvente liquido scioglie lo strato precedente creando un effetto “macchia” che, se non voluto, risulta spiacevole e piatto.
Inoltre la pittura ad olio è molto più resistente all’usura del tempo e può essere facilmente applicata su tele di stoffa laddove le tempere vanno stese o su carta o su tavole di legno.
In questo modo le tele potevano essere arrotolate senza che la pittura si rovinasse e questo ne facilitò assai il trasporto e il commercio e quindi l’uso.
Ma la pittura ad olio permetteva anche l’uso della tecnica a spatola, dove l’impasto pittorico può essere steso con una spatola in massa, dando al quadro un effetto cromatico e tridimensionale impossibile da aversi con le altre tecniche.
Infine la pittura ad olio permette all’artista di correggere le stesure precedenti semplicemente ripassando e coprendo il vecchio dipinto. L’unico vero difetto di questa tecnica è rappresentato dai lunghi tempi di essiccazione necessari per poter stendere uno sull’altro, in velatura, differenti strati di colore.
Problema che non può essere risolto aggiungendo all’impasto sostanze essiccanti perché queste, in genere, scuriscono nel tempo i colori dei vari pigmenti, rovinando il dipinto.
Come oli si utilizzano in genere oli essiccativi, come l’olio di lino ma anche oli di noce o di cartamo, molto trasparenti ma che soffrono, successivamente, di forti screpolature nel film polimerico che vanno a formare con i pigmenti disciolti al loro interno. L’olio di lino, al contrario, si oppone molto alle screpolature ma ingiallisce con il tempo.
Ma si usano anche oli cosiddetti essenziali (da “essenza”), come oli di trementina, oli di rosmarino ed altri estratti da piante.
Queste essenze, ottenute per distillazione di composti naturali, erano ovviamente più costosi ma permettevano di ottenere dipinti di qualità superiore che ingialliva di meno con il tempo.
Per esempio, nel famoso dipinto di Raffaello “Crocifissione Gavari”, che potete ammirare in alto, il terreno, le figure e gli abiti verdi furono realizzati con colori impastati con olio di semi di lino, mentre il cielo blu fu dipinto con colori impastati nell’olio di noce. Questo perché il pittore ritenne che il cielo non dovesse ingiallire nel tempo, anche a scapito di qualche screpolatura, laddove invece l’ingiallimento del verde e del terreno fu ritenuto meno importante delle screpolature per il terreno e gli abiti.
L’imprimitura
Nella tecnica ad olio occorre che la superficie del supporto sia resa adatta alla stesa dei pigmenti disciolti in olio.
In passato si usava stendere sui supporti gesso impastato con colle animali (ricche di gelatina) come la colla di coniglio o di caseina.
Spesso si aggiungeva olio di lino cotto per permettere la formazione di una struttura polimerica solida in film aderente al supporto e che permettesse una stesa dei colori omogenea e senza colature o assorbimenti eccessivi.
Oggi le tele pronte per pittura ad olio sono a base di un collante acrilico impastato con ossido di Titanio, un comunissimo colorate bianco.
I colori ad olio
Oggi la chimica organica mette a disposizione una ampissima gamma di coloranti ma nel passato (e in parte ancora oggi) i colori più usati nella pitture ad olio sono:
per il bianco: ossido di Titanio, ossido di Zinco e carbonato acido di Piombo (PbHCO3);
per i bruni: ossido e solfato di ferro, terra di Siena. Per quest’ultimo pigmento inorganico terroso naturale la composizione media è la seguente: ossido di Ferro (45%), ossido di Alluminio, Silice e carbonato di Calcio (26-30%), acqua strutturale (9%), umidità (17%);
per i blu: ossido di Cobalto;
per il giallo: solfuro di Cadmio, cromati di Piombo (da non molto tempo considerato cancerogeno);
per il rosso: solfuro di Mercurio (detto anche cinabro), solfuro di Cadmio, ossido di Ferro, cocciniglia;
per il verde: ossido di Rame, ossido di Cromo;
per il nero: carbone d’avorio (fatto con ossa animali calcinate), carbone di vite (o carbone vegetale).
Ovviamente questo elenco non comprende i colori “organici” ovvero quelli ottenuti per sintesi chimica e che si svilupparono a partire dall’ottocento.