Le industrie dei coloranti, che si svilupparono nella seconda metà dell’ottocento, sono industrie chimiche ad alto impatto ambientale perché molte sostanze che entrano nel loro ciclo produttivo e alcuni coloranti finali sono spesso tossici (ovviamente non manifestano tossicità per contatto quando si trovano sui tessuti che indossiamo, tranquilli!).
Inoltre si basano su molecole, come il benzene, che derivano o dalla distillazione del carbone (la vecchia, ottocentesca, carbochimica) o da quella del petrolio (la meno esotica e novecentesca petrolchimica), che alla loro base hanno processi molto energivori, che consumano cioè moltissima energia per produrre i composti finali.
Si tratta di un’industria che contribuisce seriamente all’inquinamento e non solo per via della tanta CO2 che immette in aria.
I coloranti tessili rendono certamente i nostri vestiti più piacevoli da vedere perché abbiamo già detto che l’alternativa è quella di colorare i tessuti con estratti di erbe, radici e poco più, con risultati che non si discostano molto dal marroncino, verdognolo, giallastro.
Ma questa piacevolezza estetica ha un costo sia dal punto di vista dell’inquinamento ambientale che in termini energetici.
Sembra inutile, sciocco e francamente ipocrita sentirsi ecologici perché si va in bicicletta per non inquinare e poi si indossano abiti coloratissimi per la cui realizzazione si è impiegata moltissima energia (e quindi molti metri cubi di CO2 sono stati immessi in atmosfera).
Inoltre, quando poi si getta via l’abito, si immettono nell’ambiente moltissime sostanze molto complesse che prima o poi entrano nel metabolismo di qualche pianta o animale con incerti effetti metabolici. E spesso l’uomo si trova alla fine delle varie catene alimentari…
A questo proposito, qualche anno fa, precisamente nell’agosto del 2011, Greenpeace promosse un’indagine molto attenta, basata su un gran numero di analisi chimiche condotte su una grande quantità di capi di abbigliamento di grandi case tessili commercializzate da grandi aziende distributrici.
Capi di abbigliamento di marchi come Giorgio Armani, Benetton, Blozek, C&A, Diesel, Sprit, GAP, H&M, Jack and Jones, Levi’s, Mango, Your M&S, Meters/Bonwe, Only, Tonny Hilfiger, VVancl, Vero Moda, Victoria’s Secrets, Zara, furono sottoposti ad analisi per ricercare l’eventuale presenza di nonilfenol etossilato, di ftalati provenienti da plastificazioni tipo Plastisol, di ammine provenienti da coloranti azotati.
I risultati furono che molti capi, acquistati in ogni parte del mondo dopo essere stati prodotti per lo più in Paesi in via di sviluppo, contenevano residui dei trattamenti con queste sostanze.
In realtà, i valori erano sempre al di sotto dei limiti tossicologici per l’uomo, quindi lo studio, peraltro molto serio da un punto di vista analitico, non poteva concludere che ci fosse qualche rischio per la salute umana, nel senso che chi li indossava, anche in presenza di residui di questi prodotti, non aveva nulla da temere per la propria salute.
Il punto centrale del lavoro era tuttavia che questi capi, con i ripetuti lavaggi in casa o con il loro smaltimento finale, alla fine immettono nell’ambiente le sostanze con cui sono colorati.
Se il contenuto per singolo capo resta dunque irrisorio e tale da non destare preoccupazioni di tipo tossicologico per chi li indossa, certamente l’enorme numero di capi venduti fa prevedere un significativo problema tossicologico per l’ambiente in cui le acque di lavaggio vengono scaricate.
Il nonilfenolo e il nonilfenolo etossilato, il cui uso è tra l’altro vietato da molti anni nel territorio dell’Unione Europea, sono sostanze che trovano impiego nella lavorazione industriale tessile quali tensioattivi non ionici con ottime prestazioni come detergenti, emulsionanti e disperdenti.
Sono utilizzati anche negli oleanti per filatura, sostanze che impediscono alle fibre di attaccarsi fra di loro durante la filatura e che successivamente vengono rimosse per lavaggio energico, e nelle formulazioni di molti ausiliari per la tintura ed il “finissaggio” dei tessuti.
Tutti gli alchil fenoli, della cui categoria fano parte i nonil fenoli e il nonilfenolo etossilato, sono sostanze persistenti, bioaccumulabili e tossiche per gli organismi acquatici. In particolare, essendo molto simili ad alcuni ormoni femminili, l’inquinamento da nonilfenolo porta all’insorgenza di alterazioni del sistema riproduttivo.
La “femminilizzazione” dei pesci esposti a queste sostanze ne è un esempio inquietante.
A causa della loro ittiotossicità, queste sostanze usate nell’industria tessile sono state inserite all’interno del Regolamento Europeo n. 552/2009, relativo alle sostanze soggette a restrizione nell’ambito del regolamento Reach.
In poche parole queste norme impongono che sostanze o miscele il cui contenuto di nonilfenolo e/o nonilfenoli etossilati possa essere superiore allo 0,1% non possano essere immesse in commercio.
Gli ftalati, invece, sono i più comuni plastificanti usati per le applicazioni plastiche sui tessuti.
Chi di noi non conosce le magliette con sopra stampate a rilievo figure colorate che al tatto sembrano di plastica?
Ebbene, sono proprio di plastica e nella loro produzione si possono impiegare gli ftalati.
Anche gli ftalati sono stati trovati nelle analisi di Greenpeace e precisamente il 2-etilesil ftalato (DEHP), il butil benzil ftalato (BBP) e il diiso nonil ftalato (DINP). In Europa sono considerate sostanze tossiche.
I primi due infatti sono classificati tossici per il sistema riproduttivo e sono stati elencati nella classificazione REACH fra le sostanze estremamente preoccupanti.
Il terzo è considerato tossico ad alti dosaggi e con effetti negativi sul sistema ormonale.
Anche in questi casi i livelli di concentrazione, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, non sono preoccupanti per chi indossa gli abiti, ma il rischio ambientale è legato all’immissione nell’ambiente di questi prodotti attraverso le operazioni di lavaggio casalingo o con lo smaltimento finale.
Considerando l’elevatissimo numero di capi così fatti che girano per il mondo, la quantità totale di questi inquinanti immessi nell’ambiente risulta straordinariamente elevata.
Per quanto riguarda infine le ammine provenienti dai coloranti azotati, quella rintracciata nei capi esaminati, l’orto dianisidina, è classificata come potenzialmente cancerogena per l’uomo.
Anche in questo caso le quantità trovate nelle analisi di Greenpeace sono dell’ordine di qualche parte per milione, valore è estremamente basso e dunque diventa praticamente impossibile determinarne la pericolosità per chi indossa questi capi ma, di nuovo, il rischio maggiore è legato alla massiccia immissione ambientale di questa sostanza con lavaggi casalinghi e smaltimento finale dei capi sui quali è presente.
Dopo la pubblicazione di questo studio, Greenpeace chiese alle aziende produttrici coinvolte di applicare norme di produzione e di controllo anche negli stabilimenti dei Paesi in via di sviluppo, dove non ci sono come da noi norme di sicurezza ambientale e di protezione dei lavoratori e dei consumatori.
Sono regole per cui queste sostanze, se proprio non se ne può fare a meno nei vari processi produttivi, almeno non espongano i lavoratori ai rischi legati alla loro manipolazione e che soprattutto vengono smaltite come si deve negli stabilimenti di produzione.
Nike, Puma, Adidas, H&N hanno ceduto alle sollecitazioni di Greenpeace e altri marchi li hanno seguiti.
È stato un caso, poco pubblicizzato in Italia, chissà come mai, nel quale una seria campagna di analisi chimico merceologiche e un’adeguata promozione dei risultati, ha alla fine costretto grandi aziende produttrici ad applicare norme di produzione più responsabili ed attente all’ambiente anche nei Paesi in via di sviluppo.
Non è il caso di farne una tragedia, ma è bene sapere che il nostro contributo all’inquinamento ambientale e al consumo di energia, passano anche attraverso i colori e le applicazioni plastiche dei nostri indumenti, che tra l’altro diventano sempre più colorati ed invitanti.
Un po’ di buon senso, di moderazione e di consapevolezza non guasterebbe, specie in chi, per altri settori e in altri campi, manifesta un’intransigenza ambientale al limite dell’isteria.
Ci si preoccupa molto dell’inquinamento (spesso fasullo) provocato dall’acquisto di prodotti alimentari da Paesi geograficamente molto lontani e poco, se non niente, dell’inquinamento da moda.
Eppure in Germania, tanto per fare un esempio, si vendono un miliardo di magliette l’anno. Un tedesco medio ne “consuma” settanta l’anno.
Sono numeri che fanno impressione. Lasciamo pure perdere l’energia che c’è dietro la produzione di un miliardo di magliette. Lasciamo pure perdere l’energia che c’è dietro il trasporto di questa enorme quantità di materiale da una parte all’altra del pianeta.
Pensiamo soltanto alle quantità astronomiche di sostanze chimiche immesse nell’ambiente quando laviamo o buttiamo via questi capi all’ultima moda.
Una volta la moda conosceva poche “stagioni”, poco più di quelle astronomiche, cui sommava strani connubi tipo l’”autunno-inverno” e cose simili. Ora le grandi case di moda, per aumentare le vendite e i profitti, che altrimenti crollerebbero a causa delle politiche di basso costo imposte dalla globalizzazione, sono arrivate a sette, otto “stagioni” di moda, in un susseguirsi di promozioni e messaggi pubblicitari, diretti e sublimati, davvero continuo ed eccessivo.
Tutto ciò comporta consumi di energia enormi e un inquinamento ambientale di proporzioni gigantesche. Il rischio maggiore viene proprio da un’eccessiva frequenza di sostituzione dei capi da indossare e dalla loro enorme e crescente diffusione. Però, chissà perché, dell’inquinamento da moda si parla poco… cosicché la moda resta una cosa piacevole, carina, frivola, lussuosa e sempre sbarazzina.
Invece si tratta spesso di una moda pericolosa…