Abbiamo più volte ricordato che cuocere un cibo non significa riscaldarlo ma comporta cambiamenti irreversibili nella struttura molecolare dei suoi componenti tant’è vero che un cibo cotto non torna crudo se lo lasciamo raffreddare!
D’altra parte la cottura rimanda a trattamenti termici e quindi è naturale che si associ la cottura con i trattamenti termici.
Ma se potessimo indurre gli stessi cambiamenti chimici senza usare il calore, potremmo inventarci una cucina del tutto innovativa, senza fornelli o fiamme, senza padelle o rischio di scottarsi ottenendo gli stessi effetti. Fantascienza? Sogni (o incubi) di chimici strampalati?
Niente affatto e la cosa buffa è che alcuni di questi sistemi erano già utilizzati dalle nostre nonne che li usavano perché glielo aveva insegnato la loro nonna e così via…
Alcuni metodi, invece, sono obiettivamente molto recenti e vanno sotto il nome di cucina molecolare che noi volutamente non tratteremo in questo libro che vuole limitarsi ai sistemi di cottura tradizionali.
Ma vecchi o nuovi che siano, come si fa a cucinare, per esempio denaturando le proteine della carne, senza usare il calore?
La denaturazione proteica è roba tosta, nella quale serve energia perché occorre rompere le strutture quaternarie, terziarie e secondarie delle lunghe catene di aminoacidi che formano le proteine.
Ci vuole energia e tradizionalmente il modo più facile per trasferire energia a un alimento è il calore che può essere trasferito dalla fonte di calore all’alimento attraverso l’utilizzo di un vettore come l’acqua (bollitura), i grassi (frittura) o l’aria e i gas di combustione (arrostitura).
Il calore ovviamente agisce su tutta la massa dell’alimento, non soltanto sui legami chimici che vogliamo spezzare e infatti un cibo appena cotto resta anche caldo, perché il calore ha messo in rapida vibrazione tutti i suoi atomi.
Esistono tuttavia alcuni sistemi per spezzare singoli legami chimici senza interagire con altri, spezzando (e cuocendo) cioè esattamente quello che va spezzato (e cotto) e lasciando inalterato e freddo il cibo nel suo insieme.
L’ideale sarebbe trovare un qualcosa in grado cioè di fare bene il suo lavoro di rottura di alcuni legami specifici ma che sia anche innocuo (in modo da non avvelenarci) e che magari sia anche appetitoso!
Uno dei metodi chimici più antichi usati per trasformare irreversibilmente i cibi con risultati molto simili a quelli della cottura tradizionale con il calore è l’uso di acidi deboli, innocui da un punto di vista alimentare, come il succo di limone o l’aceto di vino.
Se si prende una sottile fetta di carne cruda e la si tratta con un po’ di succo di limone, dopo un po’ di tempo si nota che la carne è diventata più tenera e che ha addirittura preso il colore grigio tipico della carne cotta.
L’acido citrico contenuto nel succo di limone denatura infatti le proteine della carne, risolvendo le strutture superiori e rendendola così più digeribile.
Ovviamente l’acido citrico non agisce sul glicogeno, che così non gelatinizza e quindi se la vostra carne era ricca di tessuti connettivi, beh, è meglio lasciare perdere questa cottura a freddo perché così essa non diventerà più tenera.
Ma se invece fosse stato un pezzo di filetto, quindi con poco tessuto connettivo, allora la “cottura” a freddo con succo di limone (ma anche con aceto per chi ne apprezza il gusto) è davvero come una vera cottura a caldo con tanto di fuoco e padella.
Ovviamente richiede un po’ più di tempo. Il tempo, d’altra parte, sarebbe in grado di denaturare da solo le proteine della carne: è quanto succede in natura alle carcasse lasciate all’aperto o, in maniera decisamente più controllata, durante il fenomeno della “frollatura” della carne nel quale, semplicemente, si aspetta che il tempo denaturi un po’ di proteine, rendendo la carne più morbida.
Ovviamente la frollatura non deve essere eccessiva perché altrimenti potrebbero innescarsi reazioni di degradazione decisamente pericolose e quindi sarà l’esperienza del bravo macellaio o del cuoco provetto a interromperla al momento giusto.
Tornando però ai nostri acidi, occorre aggiungere che essi hanno anche un certo effetto igienizzante e quindi possono sostituire la cottura a caldo anche da questo punto di vista sanitario.
A questo punto è anche facile capire perché: così come denaturano le proteine della nostra fettina sottile di carne, denaturano anche le proteine con cui sono fatti eventuali parassiti e microbi, facendoli letteralmente... secchi, sterilizzando in questo modo il nostro cibo.
D’altra parte un acido debole, sia esso l’acetico dell’aceto di vino o il citrico del succo di limone, non ha effetto sui grassi della carne come invece il calore, che come sappiamo li fa fondere.
Così, trattati con questi sistemi, i grassi non escono dalla fettina insaporendo il sughetto ma restano nell’alimento.
Ecco un’altra ragione per applicare questo sistema di cottura a freddo soltanto a fettine molto magre e di alta qualità.
È anche un ottimo sistema per il pesce tagliato a fettine molto sottili, come ci insegnano molte tradizioni culinarie di gente di mare, proprio perché il pesce che è povero di grasso in questo modo non lo perde durante la cottura mantenendosi più morbido e saporito.
La “cottura” a freddo con acidi deboli si applica anche ad alimenti non proteici. Per esempio alle insalate.
Molta gente preferisce condire a pranzo la sua insalata con olio ed aceto e poi mangiarsela a cena, perché dice che così è più buona. Non sono scemi, hanno capito che nel frattempo l’acido debole ha “cotto” la verdura, rendendola più tenera.
Abbiamo già visto cosa succede alla clorofilla trattata con acidi deboli. Ma un’insalata lasciata con olio e limone per qualche ora, cambia fisicamente aspetto: la prima cosa che balza agli occhi è la perdita di lucentezza.
Proprio come succede dopo averla cotta in modo tradizionale in acqua bollente.
Ma cosa succede? In questo caso non è stato l’aceto ad aver prodotto cambiamenti irreversibili (chimici) alle foglie di verdura ma l’olio ad aver causato fenomeni di tipo fisico. Infatti la lucentezza di una foglia fresca è dovuta a microscopiche bollicine d’aria intrappolate nelle fibre vegetali, fra le varie cellule della foglia.
Queste micro bolle riflettono la luce come se fossero palline di vetro e danno alla foglia il suo tipica aspetto brillante.
La cottura, ma anche trattamenti fisici come lo spappolamento meccanico o anche soltanto l’olio che penetra nei “buchi” nei quali c’era l’aria, fanno sì che la foglia perda queste bollicine d’aria che le davano lucentezza.
Perdere un aspetto brillante e invitante a causa di uno strappo meccanico è un buon sistema di difesa da parte delle piante, che così rendono le foglie “catturate” da qualche erbivoro meno belle e appetibili, scoraggiandoli ad insistere nella loro raccolta.
Nel nostro caso invece, l’olio del condimento “sposta” fisicamente l’aria di queste bollicine per prenderne il posto e così sparisce l’effetto di riflessione e rifrazione che danno lucentezza alle foglie fresche.
L’olio non dà lo stesso effetto di brillantezza perché il suo indice di rifrazione è molto diverso da quello dell’aria e dunque… non funziona!
Ovviamente anche la cottura tradizionale con il calore, in acqua bollente, rimuove le bollicine d’aria dall’interno delle foglie, sostituendole con acqua e così anche in questo caso la foglia cotta perde la sua lucentezza precedente.